Derivato dal greco anadema, maledizione, il termine indicava, sia presso i Greci che nell’Antico Testamento, un oggetto appeso alle pareti del tempio, una specie di ex-voto (II Maccabei 9, 16). Ma poiché nell’uso religioso il termine designava la consacrazione alle deità infernali, al tempo dei Settanta (III–II secolo a.C.) assunse il significato di oggetto di maledizione. Essi quindi tradussero così la voce ebraica herem che, secondo il Talmud, era la forma più grave di scomunica, comportante l’esclusione solenne e perpetua dal consorzio dei fedeli. Nel Nuovo Testamento anatema significa un giuramento da pretarso sotto pena di gravi sanzioni (Atti 23, 14). Un oggetto di maledizione e di esecrazione (Galati 1, 8 ). San Paolo accettò ipoteticamente di diventare anatema (ovvero maledetto) pur di vedere la conversione degli Ebrei (Romani 9, 3). Per la dottrina cristiana la parola anatema ebbe un senso analogo a quello delle Sacre Scritture: separazione da Cristo e dalla Chiesa e conseguente scomunica. Quando i canoni dei concili colpiscono di anatema una dottrina, significa che essa è eretica. Nel Codice di Diritto Canonico la parola anatema (can. 2257) è sinonimo di scomunica, con riferimento a quei casi in cui essa viene inflitta con particolare solennità. Nelle iscrizioni sepolcrali cristiane, a somiglianza di quelle pagane, viene usata la forma deprecativa Anathema sit nel nome di Dio e della Trinità a chi ardisca violare le tombe, minacciando pene eterne (come quella di Giuda) o la lebbra (come l’ebbe il siro Naaman), od altre sciagure. In Oriente S. Gregorio Nazianzeno dettò ben 81 epigrammi con altrettanti anatema diretti contro i violatori di tombe.